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La fotografia responsabile

Conosciamo Marco Bettini a Murlo, un paesino del senese. Insieme guardiamo delle immagini. Lui osserva, scruta, sfoglia: torna indietro e riflette. Si ferma, poi riparte: è dentro ciò che guarda. Ogni commento viene rivolto con cautela, quasi che prima di arrivare a un senso (fotografico) occorra interrogarsi sulla fotografia, sul proprio modo di viverla. Già, Marco ha vissuto di fotografia, ma anche con essa. Per tutta la vita ha convissuto al suo fianco come fosse una buona amica. Ciò che ci dice nasce proprio da lì: da un rapporto dove molte cose vengono conosciute e altre rimangono nell’astratto: capaci come sono di indurre emozioni e non elucubrazioni logiche. Ecco, sì: nella carriera di Marco non troviamo un rapporto causa effetto, solo un lento divenire dove l’apprendimento viene dopo, in seconda istanza; quando è l’amico a formarlo o semplicemente la sua curiosità.
Il nostro ha sempre vissuto la fotografia come un ambito da esplorare, senza violenza; dimenticando quindi ciò che si può prendere con forza, ma esaltandosi quando la ricerca aveva il suo stesso battito, esaltandone la pulsione. Oggi vuole vivere di un’altra immagine, che forse è anche quella di prima; ma che ancor di più poggia su un istinto amatoriale. Oltre alla tecnica, col tempo Marco ha maturato il senso della sua missione, la vocazione che bruciava dentro. Ne è nato un senso di rispetto, che ancora oggi riesce a dedicarci mentre guardiamo le sue opere. Non si tratta di consapevolezza e nemmeno di auto compiacenza, ma di pura responsabilità. E’ un merito grande.

D] Marco, quando hai iniziato a fotografare e perché?

R] Come amatore, a vent’anni. Ho conosciuto alcuni amici del paese di mia moglie che mi hanno avvicinato alla fotografia. Dal 1988 sono diventato professionista.

D] La tua è stata passione?

R] Sì, tutto è iniziato per via di una forte motivazione. Con gli amici ho condiviso il desiderio di ritrarre la natura e l’ambiente. Io vengo da una famiglia di cacciatori della Maremma, il che mi ha indirizzato maggiormente verso quel genere. Insomma, fino a 29 anni ho girato l’Europa inseguendo gli animali e a loro dedicavo quasi tutti i fine settimana. Dovevo ritagliarmi degli spazi di tempo che s’inserissero nella mia attività di allora.

D] Passione e amicizia, quindi …

R] Certo, ma anche incontri. Sui trent’anni conobbi Guido Rossi, allora manager di Image Bank. Tornavo da un viaggio in Scandinavia e avevo del materiale, così gli feci vedere i miei scatti. Lui mi chiese: “Ce la fai a produrne mille al mese?”. “No”, risposi, “Io scatto quando sono in ferie”. Guido replicò: “Io non posso mettere in archivio 200 immagini”. E poi aggiunse: “Se vuoi intraprendere questo mestiere, devi buttare tutto alle spalle”. Così feci, dopo un anno o due. Mi appoggiai a un amico di Poggibonsi che aveva seguito un corso di fotografia industriale. Iniziai così a entrare in contatto con aziende di arredamento, frequentando altri operatori come me; uno anche di Milano. Imparavo un mestiere.

D] E’ bello il tuo rivolgerti agli altri. Rimane un segno di rispetto …

R] Frequentavo tanti studi industriali. In uno di questi incontro Mario Ciampi. Lui mi prende in simpatia. Ne nasce un’amicizia che dura tuttora. Io gli portavo i compiti da correggere. Sotto la sua ala protettiva ho imparato tanto, soprattutto le cognizioni sull’arredamento.

D] C’è stata un’impennata nella tua carriera? Un momento nel quale le cose cambiavano radicalmente?

R] Non so a cosa ti riferisci. Posso dirti che nel ’97, tramite degli amici di Treviso, mi sono spostato in Friuli. Là ho trovato clienti maggiormente interessanti, aziende più importanti. Questo mi ha permesso di apprendere la qualità necessaria al mio lavoro. Iniziava per me un periodo bellissimo, nel quale però ho mantenuto sempre la curiosità amatoriale. Io con la fotografia mi diverto. Rappresenta per me una modalità d’espressione.

D] Dalla Toscana al Friuli, quindi …

R] Fino alla Russia. I nuovi clienti mi permisero di allargare i miei orizzonti, regalandomi un’esperienza di vita interessante. C’è poi stata qualche opportunità di viaggio, così venivano a realizzarsi i miei sogni. Mi ero organizzato anche nell’abitazione, allestendo uno studio nel quale eseguivo ritratti e sperimentavo. La fotografia, per me, non ha mai rappresentato un’attività a compartimenti. Le dedicavo me stesso ventiquattro ore al giorno.

D] Oggi hai aperto una galleria a Volterra …

R] Le cose iniziavano a cambiare. Con la crisi ho cercato di sfruttare un’altra parte di me, reiventando il mio essere fotografo. L’avvento del digitale, poi, aveva modificato le competenze richieste. Non era più necessario organizzare il set o creare l’ambiente: erano nati altri strumenti. Ecco quindi l’idea della galleria. Qui in Toscana non sono il solo a esporre i lavori. Altri colleghi operano ormai da anni, così mi sono detto: “Perché non dovrei farcela anch’io?”. L’idea (e l’aspirazione) è quella di trovare le risorse per tornare a viaggiare. Mi manca il mondo. Con la galleria, ho trovato lo spazio e la dimensione per mostrare le mie cose, la mia visione sull’esistenza.

D] Torno alla passione: è stata importante?

R] Certamente, tutto è partito da lì. Io non sono un intellettuale, ma ho avuto la fortuna di incontrare persone che mi hanno fatto apprezzare la fotografia, ogni giorno di più. Ho scoperto un mondo che è fatto soprattutto di emozioni. Con gli occhi io vedo la fotografia. Come diceva Mario: “L’immagine è già lì, si tratta solo di vederla”. In effetti è così, non è come nel cinema dove tutto deve essere costruito.

D] Hai avuto degli elementi ispiratori?

R] Sicuro. Mi sono dedicato sempre al ritratto, particolarmente a quello femminile. Mi viene in mente un’intervista rivolta a Helmut Newton (un genio). Gli chiesero: “Perché Lei fotografa sempre belle donne?”. “Cerco di portarle a letto”, rispose lui. Sto scherzando, ovviamente; non posso certo paragonarmi al fotografo berlinese, ma ritrarre le donne è più semplice. Che dire? Forse sono solo un po’ infantile, ma dopo vent’anni di lavori industriali ho voglia di divertirmi. Sono fiero di quello che sono riuscito a fare. Il fotografo è un mestiere per ricchi e io sono riuscito a vivere decorosamente.

D] Marco, come hai curato la tua formazione?

R] Da autodidatta. Sbagliando e buttando via milioni di materiale. Non ho avuto un maestro e mi sono affidato alla sperimentazione. Dopo tanti anni, qualcosa ti entra dentro.

D] Tu hai iniziato con l’analogico. Nutri qualche rimpianto per la pellicola?

R] Per le tariffe che ci pagavano. Noi fotografi eravamo i padroni del vapore. Un collega diceva: “Siamo gli unici che guardiamo al buio”; ed era una grande verità. Il professionale analogico era fatto di scatti con grandi formati: 10X12, 20X25. Eravamo in pochi a poter soddisfare certi clienti.

D] Curi personalmente la post produzione?

R] Certamente, anche la stampa fino al formato base 60. Non sono bravissimo, ma mi difendo.

D] C’è un’ottica che usi preferenzialmente?

R] Dipende dai soggetti. Uso un po’ tutto, dai grandangoli spinti fino al 600 mm. Anche nei paesaggi utilizzo spesso focali molto lunghe. Diciamo che non ho regole. Nella ritrattistica monto spesso il 100 – 300. Mario Ciampi mi ha insegnato a costruire un’immagine vicina a ciò che vede una persona. Mi ha parlato di percezione, di visione. Io ho cercato di far mie le considerazioni che mi rivolgeva, anche se la sua cultura (era architetto) risultava difficile da poter permeare.

D] Tra le tue, c’è un’immagine che ami particolarmente?

R] Sì, ma non ne posso parlare: è troppo intima. Non ho, comunque, un’immagine preferita. Se mi impegno, quasi posso ricordare tutti gli scatti effettuati in una vita. Recentemente mi sono avvicinato alle persone. Mi piace la gente, ma anche l’architettura e la città. Credo di potermi definire un artigiano, che però si è impegnato in un ambito difficile quale quello della fotografia.

D] Dopo tanti anni di carriera, c’è un progetto rimasto indietro e che vorresti portare a termine?

R] C’è qualcosa che non sono mai riuscito a far partire. Mi sto riferendo al sociale. Ammiro per questo i lavori di Paolo Pellegrin. Lui fa quello che gli piace.

D] Colore o B/N?

R] Gran bella domanda. Entrambi. Il colore sicuramente. Ammiro per questo un suo grande interprete: Ernst Haas. Il B/N l’ho sognato in Camera Oscura e con esso affronto spesso la ritrattistica, perché metafisico, trascendentale. Circa il paesaggio, non saprei; dipende.

D] Potessi scegliere, che fotografia scatteresti domani?

R] Vorrei essere in Siria, in Palestina. Mi piacerebbe portare a termine un lavoro che possa approfondire i temi sociali.

D] Qual è, a tuo parere, la qualità che un fotografo come te deve possedere?

R] La curiosità e poi una sorta di responsabilità. Un fotografo è testimone del suo tempo, anche e soprattutto quando fotografa la quotidianità. Lui non incarna solo un mestiere, ma deve mettere in mostra una vocazione, il senso di una missione. Di mezzo c’è la testimonianza temporale. Tutto questo crea una tensione morale che va oltre l’estetica. Del resto i grandi ci fanno vedere cose che i più non riescono nemmeno a scorgere.

D] Sento un forte rispetto nei confronti della fotografia …

R] Senza una fotocamera in mano mi sento nudo. Un tempo lavoravo in 6X7. Vedendomi all’opera, mi dissero: “Ti sei visto?”. “Fagociti la macchina, ci sei dentro”.

D] Potessi farti un augurio fotografico da solo, cosa ti diresti?

R] Vorrei che il mio tempo finisse mentre faccio click!

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